ILNIMINCHIALISTA
TEATRALE
"Arriverà quando dovrà arrivare", con drammaturgia e regia di Vittorio Adinolfi
Autore e regista napoletano, Adinolfi è attivo in ambito teatrale dal 1991. Vincitore nel 1993 del prestigioso Premio Tondelli per la drammaturgia, ha firmato oltre venti opere originali, distinguendosi per una ricerca continua tra parola, corpo e visione scenica. Con uno stile tagliente e contemporaneo, rilegge qui il classico shakespeariano alla luce delle tensioni del presente, trasformandolo in un congegno teatrale potente e profetico.
Abbiamo visto questo spettacolo come secondo appuntamento, dopo Otello messo in scena lo scorso anno in forma di sceneggiata, e dopo una lunga pausa di dieci anni. La serata è stata introdotta dalla notizia dell'esistenza di un cortometraggio realizzato come prologo visivo, che però non è stato proiettato: un elemento che resta sospeso, come molte delle suggestioni innescate dalla messa in scena.
Lo spettacolo si apre su un'idea tanto potente quanto originale: frammenti del Giulio Cesare recitati da matti manicomiali, reclusi in una struttura sanitaria abbandonata dagli anni '80. Anime dimenticate, che continuano non solo a vivere, ma soprattutto a recitare Shakespeare come unica via di fuga immaginativa dal loro destino di esclusi.
Non so se consciamente o inconsciamente, ma questa messa in scena sembra raccontare molto di più: forse è una dichiarazione d'amore, o di necessità, verso il teatro stesso e verso la figura dell'attore, da sempre sospesa in una schizofrenia esistenziale. L'attore – come il folle – è costretto a una scissione continua, a un'esistenza doppia: da un lato persona sociale, dall'altro essere attraversato da voci, visioni e vite altrui. Una frattura che non si ricompone mai del tutto, ma che diventa linfa per la creazione e per la sopravvivenza.
Un'ora di frammenti, visioni e rotture narrative che culminano nel delitto del pazzo Bruto, portato via da quelli che potrebbero essere altri cospiratori, altri pazienti, oppure – ed è un sospetto che aleggia – degli infermieri che assecondano la sua follia di rappresentazione. Forse è uno solo a recitare davvero, forse Bruto è l'unico paziente, e gli altri sono lì a vegliare, contenere, sostenere. A rafforzare questa ambiguità, la presenza di un personaggio femminile: in un manicomio reale non ci sarebbero reparti misti, ma il personale sì. È un mistero, e resterà tale. Forse è solo un mio gioco della mente, ma il dubbio è parte integrante dell'esperienza.
È in fondo una metafora potente del teatro stesso – e della poetica di Adinolfi – che da oltre trent'anni rifiuta ogni forma di realismo in favore di un linguaggio visionario, surreale, carico di metafore e sospensioni. Perché anche il teatro apparentemente più realistico, in fondo, non è che una finzione che racconta la verità con altri mezzi.
Tra i protagonisti in scena, spicca il mattatore Lucio Celaia nel ruolo di Bruto, capace di un'intensità quasi ipnotica. Con lui i bravi Domenico Venti e Giovanni Circelli, solidi e precisi nel sostenere l'impianto frammentato del testo. Una menzione speciale va infine ad Anaëlle Lepin, al suo debutto assoluto: un'attrice dal corpo, dalla voce e dall'espressione sorprendentemente originali, a cui auguriamo di cuore di proseguire su questa strada.
ng
30 marzo 2025